17
luglio

Fuggire dalla violenza che è in seno alla famiglia

Foto di Neil Moralee

Foto di Neil Moralee

Un giorno di “careme” (quaresima) ero stato invitato a casa di mia sorella e vidi suo marito che la picchiava. Io allora cercai di bloccarlo, intanto mia sorella prese un bastone e lo colpì alla testa, uccidendolo. Mia sorella riuscì a fuggire, ma io fui preso dai familiari di suo marito che mi reclusero dentro a una stanza. Nel mio villaggio la polizia non viene quasi mai chiamata, se si può ci si fa giustizia da soli. Ho ragione di credere che la famiglia di mio cognato mi volesse fare del male o addirittura che volesse uccidermi. Fortunatamente il fratello di mio cognato mi liberò di nascosto e mi portò con la sua moto fuori dal villaggio. Mi era molto amico perché andavamo a scuola assieme e mio padre ci dava sempre un po’ di soldi.

Fuggii senza documenti a bordo di un camion fino ad Aghadez, in Niger. Non avevo denaro e dormivo all’aperto. Riuscii a guadagnare qualcosa vendendo l’acqua e con quei soldi pagai un autobus che mi portò in Libia. Una volta arrivato a Sabha però, scoprii che l’autista era d’accordo con un uomo libico che mi trattenne a casa sua assieme ad altre persone. Ci nutriva a malapena, ci picchiava e minacciava di non lasciarci andare fino a quando qualcuno dei nostri parenti non avesse pagato una cauzione. Dopo sei mesi di reclusione fui liberato. Trovai un camion che mi portò a Tripoli, dove lavorai prima come coltivatore, poi in un supermercato come tuttofare. Nel frattempo mi raggiunse il fratello di mio cognato che era discriminato dalla famiglia per avermi liberato e venne a lavorare con me.

Quando scoppiò la guerra il padrone del supermercato fuggì. Noi ci incamminammo per raggiungere la Tunisia, ma a un certo punto i militari avevano bloccato le strade; ci misero in una stanza e dopo qualche giorno ci fecero salire su una barca. Non ne conoscevamo la destinazione. Il viaggio durò quattro giorni. Durante il viaggio il mio amico si buttò dalla barca per la disperazione. So che la sua famiglia mi reputa colpevole della sua morte. In Benin ho solo mio zio, ma la famiglia di mio cognato ancora mi cerca per vendicarsi. Anche se mi rivolgessi alla polizia non sarei protetto, dato che loro troverebbero il modo di farmi del male anche con il “vodun”, che nel mio villaggio è spesso utilizzato da persone non istruite come loro.

Richiedente asilo del Benin

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