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8
agosto

Cucine Popolari

Cibo, socialità e intercultura: a Bologna c’è un progetto che unisce con successo questi tre aspetti.

Inaugurata il 21 luglio 2015, quella di via del Battiferro è la prima “mensa” (definizione, come vedremo, un po’ limitata) del progetto Cucine Popolari, che adesso ne conta altre due, nei quartieri San Vitale/San Donato e Porto/Saragozza. Sono aperte tutto l’anno e si basano su lavoro interamente volontario. Sono, infatti, circa 200 le persone che si alternano in media per ogni servizio: c’è chi si occupa della cucina con la supervisione del cuoco e presidente Giovanni Melli, chi delle stoviglie, del magazzino e della sala, e così via. È aperta al pubblico dal lunedì al giovedì: oltre ad affiancarsi al welfare tradizionale, ci spiegano i realizzatori, l’obiettivo è promuovere lo sviluppo di relazioni sociali grazie alla convivialità del pasto. Per chi lo preferisce, poi, c’è anche la possibilità di portare il pasto a casa.

I volontari sono italiani e stranieri, di età varia: una di loro di anni ne ha 84, e una volta a settimana dà il suo energico contributo tra i fuochi e le padelle, e lo racconta con visibile orgoglio.
CucinePopolari

Tra i volontari di Cucine Popolari ci sono anche quattro richiedenti asilo ospitati nel CAS (centro di accoglienza straordinaria) di Villa Angeli, gestito dalla cooperativa Lai-momo a Sasso Marconi. Moajjen è uno di loro, arrivato in Italia dal Bangladesh quasi due anni fa. È volontario da circa 4 mesi, i primi due passati come lavapiatti, e più recentemente è stato promosso come aiuto cuoco in cucina. Sorride molto, e ci tiene a presentarci tutti i suoi “colleghi” italiani che chiama a scattare una foto di gruppo.

Viene dal Mali invece Mahamadou che ci dice, con una semplicità e pacatezza disarmanti,: “mi piace l’idea di aiutare gli altri, perché io sono stato e sono ancora aiutato”. Per ora offre il suo contributo come lavapiatti due volte a settimana, ma gli piacerebbe, più avanti, dare anche una mano in cucina. Per Omar, originario del Senegal, l’esperienza a Cucine Popolari ha rappresentato e rappresenta tuttora anche un’occasione per perfezionare il suo italiano: ha iniziato ad esprimersi meglio proprio grazie a questa esperienza di volontariato, ci racconta. Anche James, che ha iniziato in giugno ed è originario della Liberia, sta trovando presso Cucine Popolari un’occasione di formazione e crescita.
CucinePopolari

Giovanni Melli è cuoco e presidente di Civibo, l’associazione che ha dato vita al progetto.
Così ne spiega le finalità: «Il nostro orientamento è di non caratterizzarci come mense esclusivamente per i poveri, ma per la comunità, aperte, quindi, anche a chi vuole mangiare, lasciando un contributo. Il nostro target di riferimento è costituito principalmente da persone in stato di fragilità e disagio, in quanto i casi di povertà estrema sono già seguiti dagli enti assistenziali». L’obiettivo ambizioso – e il vero spirito di Cucine Popolari – è quindi di fornire non solo un pasto, ma anche un argine alla solitudine e all’abbandono sociale, nella consapevolezza che «uno degli alimenti che più scarseggiano oggi è proprio la rete di relazioni».
Giovanni ha un passato da infermiere professionale, anni di esperienza nel sindacato e una grande passione – ma questo si poteva intuire – per la cucina. La sua zuppa di farro e legumi è davvero gustosa (n.d.a.), mentre la caponata di verdure richiede un bis doveroso. Per la gestione di Cucine Popolari, Civibo si affida principalmente a risorse proprie e donazioni private, ma attinge anche ai reparti di gastronomia dei supermercati che mettono a disposizione gli eccessi di cibo di fine giornata, contribuendo in questo modo a ridurre gli sprechi alimentari. Ogni giorno si prepara un pasto completo di tutto rispetto: primo, secondo, contorno, frutta e dolce, che soddisfa i gusti di tutti.
CucinePopolari

Alla fine di ogni “pranzo popolare”, i volontari si riuniscono tutti intorno a una lunga tavolata per mangiare: è un momento importante di condivisione e confronto, al quale è importante essere tutti presenti. L’impegno quotidiano è circa dalle 9 del mattino alle 14.30 del pomeriggio: Pasquale Loreto, referente di Cucine Popolari per i richiedenti asilo e i lavoratori di pubblica utilità, ci spiega quanto sia fondamentale la puntualità e l’affidabilità per poter contribuire come volontari: non si tratta, pertanto, di un impegno da prendere sottogamba.

Ma chi siede ai tavoli di Cucine Popolari? I commensali sono in gran parte italiani, per lo più anziani soli o persone in situazione di disagio sociale, e c’è anche qualche famiglia al completo. Quella che viene a crearsi non è un’atmosfera da mensa, ma più da pranzo di famiglia, con tavoli da 6 posti attorno ai quali si riuniscono gruppi formatisi spontaneamente, e che spesso altrettanto spontaneamente si ritrovano. Condivisione, convivialità, dialogo interculturale: varie dimensioni dello stare insieme si intrecciano tra i tavoli e i fornelli delle Cucine Popolari.

CucinePopolari

10
aprile

koneAli

 

Trovare un impiego è oggi una sfida non facile, per tanti giovani e non solo. Uno degli aspetti chiave per un inserimento positivo nel mercato del lavoro è la valorizzazione delle competenze e conoscenze già acquisite. Questo può risultare più problematico se si è stranieri, in un Paese che si conosce da poco e che non ha le stesse regole di quello da quale si proviene: a fare la differenza, spesso, sono l’impegno e la determinazione personale.

Così è stato nel caso di Alì Kone, un richiedente asilo ospitato a Castel di Casio (Bo), in un centro di accoglienza straordinaria gestito dalla cooperativa Lai-momo. Il giovane venticinquenne, originario di Sikasso, città del Mali, si è dato subito da fare, attivandosi autonomamente per ricercare un’occupazione in un settore in cui aveva già avuto esperienza. Infatti, Alì aveva lavorato come saldatore a Bamako e successivamente in Libia, a Tripoli, per un anno e dieci mesi. Ed è su questa competenza molto concreta che Alì ha puntato arrivando, a settembre 2017, a iniziare un tirocinio presso un’azienda locale, Expert Ferro, che ha sede a Porretta Terme.

Ma in che modo è riuscito a inserirsi? Alì, che cercava direttamente sul territorio possibilità di inserimento lavorativo, un giorno ha notato l’insegna dell’impresa e ha chiesto informazioni, proponendosi come saldatore e fabbro. Decisiva è stata l’idea di mostrare le foto, salvate sul suo telefono cellulare, in cui lo si vedeva all’opera con i ferri del mestiere. Una testimonianza chiara e significativa dell’esperienza pregressa, che ha convinto i responsabili della Expert Ferro: pochi giorni dopo Alì è stato richiamato e ha iniziato il suo percorso di tirocinio, che perdura tutt’ora. La sua attività si svolge in parte in sede, in parte presso privati e aziende del territorio. Un lavoro che lo gratifica, gli dà la possibilità di imparare e sviluppare le sue competenze, e di lavorare fianco a fianco con colleghi italiani. La soddisfazione è reciproca: secondo il titolare dell’azienda, Francesco Arceri, Alì è un giovane molto attivo, puntuale e dedito al lavoro. “A volte devo essere io a spingerlo a fare pausa o andare a casa quando ha finito”, racconta.

A supportare migranti e rifugiati nella ricerca di lavoro oggi c’è uno strumento in più, realizzato dalla cooperativa Abantu in collaborazione con Lai-momo: il video multilingue Orienta, guida pratica per richiedenti asilo. Uno strumento pensato principalmente come supporto durante i colloqui informativi e orientativi svolti dagli operatori del settore, nato dalla consapevolezza che l’integrazione nel territorio di accoglienza passa anche e soprattutto per il lavoro.

K.a.

14
marzo
© Cantieri Meticci

© Cantieri Meticci

Hamed ha 26 anni, ed è un tecnico luci. Anzi no, o meglio, non solo. Hamed è anche attore e insegnante di teatro e, all’occorrenza, aiuto-scenografo. Da qualche mese è impegnato anche nel servizio civile e nel tempo libero si dedica al trasporto biciclette per l’associazione l’Altra Babele. Infine, in Costa d’Avorio, suo Paese d’origine, era elettricista.
Ha mille volti Hamed, o forse ne ha uno solo: quello aperto, di chi ama raccontare e condividere la propria storia. E di chi sa all’improvviso fulminarti con una battuta, in un italiano spedito e quasi sempre corretto. In Italia da quasi due anni, è ospite di un Centro di accoglienza straordinaria (CAS) gestito dalla cooperativa Lai-momo  a Bologna.

La sua avventura con il teatro è iniziata con l’associazione Graf, che promuove nel quartiere San Donato laboratori e incontri di scambio sociale e culturale. In questo contesto Hamed, che dava una mano nella cura del verde, ha conosciuto Sandra Cavallini, attrice e insegnante di teatro, che presso gli spazi Graf conduce il Laboratorio Comico Permanente. Sandra gli ha proposto di dare una mano con la scenografia, ma, una volta sul palco, il passo dal sistemare le quinte a farsi attore è stato breve: un giorno, per gioco, sentendo il ritmo incalzante di alcune percussioni, Hamed ha improvvisato spontaneamente uno sketch e ha conquistato tutti.
Da quel momento ha iniziato a frequentare assiduamente il laboratorio con un gruppo di coetanei italiani e ha partecipato agli spettacoli inseriti nel cartellone della Giornata Mondiale della Commedia dell’Arte – Commedia dell’Arte Day  edizione 2017 e 2018.

Laboratorio Comico Permanente 2017 - 2018 canovaccio IL PEREGRINO AMANTE

© Laboratorio comico permanente

Parallelamente gli hanno parlato di Quartieri Teatrali, progetto di Cantieri Meticci, e ha iniziato a frequentare anche il loro laboratorio, presso il Centro Zonarelli, sperimentando e imparando sempre di più. Cantieri Meticci è una compagnia teatrale che riunisce artisti italiani, migranti, rifugiati, e sviluppa – in Italia e all’estero – percorsi teatrali che intrecciano i linguaggi della narrazione a quelli della danza, della musica, della videoarte. Con il progetto Quartieri Teatrali, Cantieri Meticci realizza numerosi percorsi teatrali in diversi luoghi di Bologna, attraverso una serie di laboratori pensati per insegnare le basi della recitazione e della scrittura scenica.
Anche in questo contesto, Hamed si è distinto a tal punto da essere segnalato al direttore, Pietro Floridia, per prendere parte a un progetto presso il liceo Sabin di Bologna. In quel contesto, mentre si occupava delle luci, ancora una volta, il destino ci ha messo del suo: una delle attrici non poteva essere presente allo spettacolo della sera, ed ecco pronto Hamed come sostituto. Fondamentale per lui è stato il supporto di Davide, scenografo di Cantieri Meticci, che ha saputo valorizzare i suoi interventi in campo sia scenografico sia illuminotecnico. Da allora, varie esperienze teatrali si sono susseguite, che lo hanno portato anche a partecipare, a Siracusa, a Sabir, il Festival diffuso delle culture mediterranee.

© Cantieri Meticci

© Cantieri Meticci

“Beccato” a riparare una bici, Hamed ha iniziato in parallelo a collaborare con l’associazione l’Altra Babele, per la quale si occupa di trasportare le bici che devono essere riparate. Nell’ultima asta di bici usate organizzata nel 2017 da l’Altra Babele, Hamed si è anche cimentato nel ruolo di banditore, riscuotendo un grande successo. Ed è proprio con l’Altra Babele che è partita recentemente una nuova sfida: fare corsi di teatro, trasmettendo ad altri la passione che l’ha animato in questi ultimi mesi. Un’esperienza che è iniziata il 1° febbraio e che lo mette alla prova nelle nuove vesti di insegnante, una volta alla settimana presso il circolo Arci “La staffa”. Questo il link dove potete trovare tutte le informazioni: https://laltrababele.it/corso-di-teatro/.
Da qualche tempo, Hamed si dedica anche al servizio civile in una struttura che ospita ragazzi disabili, a Mercatale, frazione di Ozzano: un altro tipo di esperienza, un’altra occasione di arricchimento e formazione, nonché di contributo al tessuto sociale che lo sta accogliendo.

Hamed dice che il teatro gli permette di dare voce a coloro che non ce l’hanno o che faticano ad averla, e di esprimere la diversità, contribuendo al miglioramento della società. E pensare che prima non aveva mai avuto esperienze teatrali: in scena, ha scoperto di avere uno spazio di libera espressione, in cui, superate le paure inziali, si trova del tutto a suo agio. Un mondo in cui si è sentito da subito accettato, anche senza parlare perfettamente italiano, e che gli ha dato forza e speranza, nei mesi difficili durante l’attesa dell’esame della richiesta di asilo. “Se non fosse stato per il teatro, sarei stato tutto il giorno a piangere”, ci dice, al termine di una chiacchierata.
Una storia sul valore “terapeutico” dell’arte, quindi? Sì, in parte, ma anche sulla forza di volontà, la voglia di darsi da fare e le possibilità di riscatto in forme creative. E anche questo è, oggi, integrazione.

© Cantieri Meticci

© Cantieri Meticci

1
marzo

Ha una cartellina piena di poesie, che gli piace far leggere a chiunque abbia voglia di immergersi nelle sue parole. Dice di ispirarsi a Baudelaire, David Diop, Victor Hugo e ama firmarsi con lo pseudonimo Tchal Wel. Nei mesi scorsi ha frequentato un laboratorio di scrittura, i cui risultati sono stati pubblicati in un e-book, ed è anche iscritto al Corso di Economia, Mercati e Istituzioni presso l’Università di Bologna.
Abdou Samadou ha 28 anni, viene da Sokodé (Kédji-Kandjo), città del Togo, ed è arrivato in Italia nel settembre 2016. Nel suo Paese d’origine studiava biologia animale, ma già allora la vocazione letteraria era molto forte: scriveva poesie, frequentava un gruppo di autori locali e presentava qualche opera nelle scuole. Attualmente, Abdou Samadou risiede in un Centro di accoglienza straordinaria gestito dalla cooperativa sociale Lai-momo.

Una passione fortissima, quella della scrittura, che lo fa sentire bene, gli permette di esorcizzare la nostalgia e dare forma ai ricordi: un piatto tipico, una persona cara, l’impressione di un momento, che trovano espressione in versi in francese, in kotokolì (sua lingua madre), ora anche in italiano. La poesia per Abdou Samadou è il frutto dell’ispirazione, il luogo in cui trovano voce una parte di esperienze vissute, anche non personalmente. Un’ispirazione che può coglierlo a qualsiasi ora del giorno e della notte, che si unisce alla passione per le lingue. “Più parli le lingue più il mondo è aperto”, ci spiega. Quindi, sottolinea, “se purtroppo l’iter della richiesta di asilo non dovesse andare a buon fine, avrò comunque avuto la possibilità di conoscere, imparare, e aprire la mia mente”.
Gli operatori di Lai-momo avevano spesso notato Abdou Samadou con un libro in mano, mentre cercava di leggere con caparbietà, nonostante le difficoltà con la lingua italiana. E spesso erano stati da lui sollecitati nel correggergli testi e poesie che, con sempre maggiore sicurezza, Abdou Samadou tentava di scrivere in italiano.

Partecipanti all’edizione 2017 del Laboratorio di scrittura interculturale

Partecipanti all’edizione 2017 del Laboratorio di scrittura interculturale

Di fronte a una tale vocazione, è stata colta al balzo l’opportunità offerta dal laboratorio di scrittura interculturale, nato dalla collaborazione tra il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna e l’associazione Eks&tra, che da anni lavora sui temi della scrittura migrante. Eks&tra aveva già conosciuto Abdou Samadou al laboratorio di poesia tenuto da un ex allievo del laboratorio di scrittura, presso il CPIA di San Giovanni in Persiceto.
Il responsabile del laboratorio di scrittura interculturale è il prof. Fulvio Pezzarossa, docente di Sociologia della letteratura presso l’Università di Bologna; tutor d’eccezione è lo scrittore bolognese Wu Ming 2, appartenente al noto collettivo Wu Ming.
La particolarità – o per meglio dire il pregio – del laboratorio è che, pur rientrando nel percorso accademico, la partecipazione agli incontri è aperta a richiedenti asilo e migranti anche se non iscritti all’università. L’idea di base, secondo il prof. Pezzarossa, è quella di creare un laboratorio paritario, nel segno non dell’assistenzialismo, ma del riconoscimento di talenti. Non è l’unica opportunità, vale la pena ricordarlo, offerta dall’Università di Bologna ai richiedenti asilo: esistono borse di studio specifiche, con il programma Unibo for Refugees. Ed è stato proprio grazie a questa possibilità che Abdou ha potuto anche iscriversi all’università.

Il laboratorio di scrittura interculturale viene proposto dal 2007, e nel corso degli anni ha visto avvicendarsi insegnanti sia migranti sia italiani. Inizialmente prevedeva una narrazione individuale, solo nelle ultime edizioni la scrittura è diventata collettiva. L’obiettivo finale resta quello di guardare la realtà sotto angolature nuove, scoprire sfumature diverse, confrontando stili ed esperienze, favorendo l’incontro e la contaminazione, superando gli stereotipi.
Il laboratorio prevede 36 ore di incontro effettivo, anche se il lavoro va ben oltre le attività in aula. Ogni edizione ha un tema, sul quale viene chiesto di presentare un documento d’archivio: una foto, un testo, un video. Ma come funziona, nel concreto, la scrittura collettiva? La classe è composta da circa 30 partecipanti: si formano piccoli gruppi di 3-5 persone, ognuno dei quali elabora un racconto. Il gruppo pone in mezzo al tavolo il documento scelto, dal quale trarre ispirazione: si elabora insieme la scaletta del racconto e si suddividono le parti. Inizia quindi la fase di scrittura individuale, sulla quale poi avviene il confronto: i brani scritti singolarmente vengono collettivamente discussi, modificati, a volte ance riscritti, infine “cuciti” insieme.
Secondo gli organizzatori del laboratorio, emerge così, per mezzo del talento di ciascuno, una creatività collettiva. A differenza di quanto si potrebbe pensare, il gruppo non cancella l’individualità, anzi potenzia le caratteristiche di ogni partecipante. Le differenze culturali vengono trasformate in vantaggio, diventando possibilità di arricchimento: scrivere collettivamente mette tutti sullo stesso piano, indipendentemente da esperienze pregresse, provenienza geografica, competenze specifiche. In un mondo che spinge a stare soli, inoltre, il fatto che i racconti vengano scritti insieme rappresenta una controtendenza molto significativa: il laboratorio è la testimonianza concreta che una condivisione umana è possibile, in un incrocio di destini e scritture.
Uno degli aspetti che più ha colpito Abdou Samadou è stata proprio la possibilità di conoscere nuove persone e di confrontarsi. Anche i partecipanti italiani erano originari di diverse regioni: a volte essi si sono sorpresi nel trovare più differenze culturali con un connazionale di un’altra regione che non con i richiedenti asilo.

Un momento della presentazione di Dall’altra parte del mare

Un momento della presentazione di Dall’altra parte del mare

Il prodotto finale del laboratorio è una pubblicazione che, come tutti i testi delle precedenti edizioni, è disponibile liberamente in formato pdf sul sito dell’associazione Eks&tra.
Dall’altra parte del mare è la raccolta prodotta all’interno dall’edizione del 2017. L’e-book è stato presentato a Bologna presso la libreria Modo infoshop il 9 febbraio scorso, alla presenza degli organizzatori, dei giovani autori, e di un pubblico numeroso. In questa occasione, Abdou ha avuto la possibilità di leggere un suo inedito e di sottolineare l’opportunità che gli è stata offerta.
L’edizione 2018 del laboratorio di scrittura interculturale è iniziata il 16 febbraio e si concluderà in aprile. Il tema è “Aspettano di essere fatti uguali”. Non resta che attendere il prossimo volume, e le prossime storie che arriveranno e verranno raccontate, dall’altra parte del mare.

 

 

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Abdou Samadou

21
novembre

Dall’Appennino emiliano arriva una storia positiva di accoglienza e di integrazione.

Yves ha ventotto anni ed è un richiedente asilo, originario del Benin. È arrivato in Italia nel 2014 ed è stato ospite da maggio 2015 fino a qualche mese fa nel CAS (centro di accoglienza straordinario) di Vergato, gestito dalla società cooperativa sociale Lai-momo.

Il suo percorso di integrazione è stato caratterizzato da diverse attività: dalle lezioni di italiano L2 per apprendere la lingua, ad attività di volontariato, fino a un corso professionale per la lavorazione del Parmigiano Reggiano. Un’esperienza, quest’ultima, che si è rivelata determinante: in pochi mesi, infatti, Yves ha appreso così tanto che, prima ancora di sostenere l’esame finale, è stato assunto da un caseificio di Montese, in provincia di Modena.

Il nuovo datore di lavoro lo ha anche aiutato a trovare un’abitazione, e attualmente Yves vive e lavora a Montese con un regolare contratto.

Una storia che accende i riflettori sull’altra faccia della migrazione, quella positiva, quella caratterizzata dalla determinazione di chi arriva, da un territorio che sa fare inclusione e dalla capacità di alcune imprese locali, di essere ricettive e aperte. Tutto questo testimonia come spesso l’efficacia dei percorsi di integrazione passi attraverso la formazione e il lavoro.

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17
novembre

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“La strada dell’asino” è una pubblicazione che nasce dalla collaborazione spontanea sorta tra due richiedenti asilo di origine pakistana, ospiti nel Centro di accoglienza straordinario di Ponte Limentra a Riola di Vergato (Grizzana Morandi, BO).

Durante gli incontri di un laboratorio di pittura e di libera espressione, il Closlieu di Riola, i due si ritrovano e iniziano a conoscersi. Un’attività, quella dell’arte pittorica, in cui esprimono in gruppo la propria creatività, dipingendo senza inibizioni. Seduta dopo seduta, Rashid Mirza e Gul K. trovano nell’esperienza artistica il modo di intendersi tra di loro e soprattutto di esprimere e condividere il difficile percorso che li ha portati dal Pakistan in Italia.

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Juliane Wedell – operatrice della società cooperativa sociale Lai-momo, gestore del centro di accoglienza straordinaria che li ospita – inizia a raccogliere i loro racconti e i loro disegni. Piano piano prende forma, in parole e immagini, la storia di una fuga e di una lotta per la sopravvivenza. Un viaggio attraverso Paesi diversi, superando confini e difficoltà, lungo la “strada dell’asino”, quella che intraprende chi – secondo un detto pakistano – non ha altra scelta ed è disposto ad affrontare qualsiasi pericolo.

Rashid Mirza ha lavorato come giornalista in Pakistan per una rivista locale, e proprio a causa del suo lavoro è stato costretto a fuggire. Il racconto di Mirza è stato illustrato da Gul K., che ha trovato nel disegno la maniera migliore di esprimersi.
La pubblicazione, edita da Lai-momo, è disponibile in distribuzione gratuita in due versioni, italiano e inglese.

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12
aprile

Per un gruppo di bambini delle scuole elementari di Castelguelfo le maschere Dogon non sono più un grande mistero. Un laboratorio, tenutosi in biblioteca nei pomeriggi del 21 febbraio e del 7 marzo, ha permesso loro di conoscerle e crearle, guidati da qualcuno che ne aveva avuto diretta esperienza.

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Foto di Lai-momo

A condurre il laboratorio è stato infatti un richiedente asilo ospitato nel CAS (Centro di Accoglienza Straordinaria) di Castelguelfo, assistito da due amici-collaboratori, provenienti dal Mali e dalla Costa d’Avorio, e dagli operatori della società cooperativa sociale Lai-momo Silvia Pitzalis e Giacomo Dalle Donne. Silvia ha ideato e promosso l’esperienza insieme a Sara Bruni.

Fakaba è figlio di un artigiano maliano della popolazione dei Dogon, che da generazioni creano strumenti musicali e maschere usate in cerimonie rituali, trasmettendo il loro sapere per via patrilineare. I Dogon sono circa 240.000, sparsi nei villaggi della falesia di Bandiagara, a sud del fiume Niger, area che l’Unesco ha dichiarato patrimonio dell’umanità per la sua importanza culturale.

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Foto di Lai-momo

Uno dei due incontri è stato in parte impostato su contenuti teorici, tra cui la presentazione della cultura Dogon. Molte sono state le domande e le curiosità dei bambini coinvolti. Guidati dai “maestri”, ma ispirati dalla libera fantasia, hanno potuto sbizzarrirsi utilizzando pennelli, colori e materiali diversi con cui assemblare e decorare le maschere: cartone, lenzuoli, pezzi di legno, semi, conchiglie.

Le maschere Dogon sono fatte principalmente di legno e i soggetti più rappresentati sono gli animali, le donne e gli antenati. Sono forse il simbolo più espressivo della loro fede e vengono usate durante le cerimonie e le danze rituali, nelle piazze dei villaggi in cui si raccontano storie legate alla ricca cosmogonia Dogon. I danzatori indossano queste pesanti maschere che mettono in contatto il mondo dei morti e degli antenati con quello dei vivi. Spicca fra tutte quella del serpente iminana, che raggiunge i dieci metri ed è custodita in una grotta segreta. Parte del sapere sulle maschere è, infatti, riservato solo a poche persone.

Il laboratorio ha rappresentano un’occasione di scambio e di crescita per tutti. Per i bambini, conquistati da una lezione partecipata e originale, ma anche per Fakaba, che ha potuto condividere anche solo in piccola parte la ricchezza della sua cultura di origine, nei luoghi che lo stanno ospitando. Al termine, Fakaba ha regalato delle maschere da lui realizzate alla biblioteca di Castelguelfo. Un’esperienza che ha entusiasmato e appassionato, e che sarebbe interessante riproporre in altri contesti, allargando anche la platea dei piccoli destinatari.

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Foto di Lai-momo

 

6
marzo

Undici richiedenti asilo, quattro macchine fotografiche da condividere, un fotografo-insegnante armato di tanta passione, una città (Ferrara) da scoprire e immortalare. Sono gli ingredienti di una mezza giornata trascorsa dall’insolito gruppo alla ricerca di un dettaglio da fotografare, tra le vie e le piazze della splendida città estense.

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Foto di Lai-momo

L’esperienza rientra in un progetto rivolto ai richiedenti asilo ospitati nel CAS (Centro di accoglienza straordinario) di Castello d’Argile gestito dalla società cooperativa sociale Lai-momo. Il progetto At-tra-ver-so è ideato e condotto dal fotografo Paolo Cortesi ed è realizzato in collaborazione con l’associazione “Insieme si può fare” e il gruppo “Famiglie in rete”. Gli sponsor Ferno Washington di Pieve di Cento ed Emilbanca hanno erogato un contributo economico con cui poter acquistare le reflex digitali (di seconda mano) e il materiale strettamente necessario al loro funzionamento.

A ottobre sono iniziate le lezioni teoriche, negli spazi messi a disposizione dal Comune di Castello d’Argile; dopodiché sono iniziate le escursioni durante le quali mettere in pratica quanto appreso in aula. Prima Castello d’Argile, poi un paio di volte a Bologna, ora Ferrara: Paolo ha portato i ragazzi tra le vie e le piazze cittadine, alla scoperta di monumenti e angoli suggestivi, da vedere attraverso l’obiettivo e immortalare in uno scatto. Sono previsti altri incontri, tra uscite fotografiche e momenti di confronto in biblioteca a Castello d’Argile, dove Paolo resterà a disposizione dei ragazzi, una volta a settimana, per consigli e chiarimenti.

È una grigia domenica di febbraio quando il gruppo varca le mura ferraresi. Per qualcuno di loro è la prima visita. Tra gli sguardi incuriositi di passanti e turisti, anche il sole pian piano viene fuori, e addolcisce i profili da cogliere.

Paolo fa strada, un po’ “Cicerone” un po’ capo-gruppo. Ogni tanto si ferma per dare un’occhiata agli scatti e dà suggerimenti, consigli tecnici per sistemare luce, fuoco, obiettivo. Ogni tanto segnala un buon soggetto, ma spesso non è necessario: i ragazzi in autonomia si lasciano ispirare e immortalano quanto sembra loro degno di attenzione. È anche difficile tenere il gruppo unito: uno di loro resta spesso indietro, preso dall’ispirazione, bisogna fermarsi e mandare qualcuno a recuperarlo.

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Foto di Lai-momo

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Foto di Lai-momo

Si prosegue poi per la storica via delle Volte, che merita i primi scatti, diretti verso il Castello Estense, cuore della città. Si cerca l’angolazione giusta con cui mettere l’orologio del Castello tra le mani della statua di Savonarola. Ci si ritrova tutti col naso all’insù nella rotonda Foschini, dove si tenta un gioco di specchi. Il gruppo si dirige poi alla scoperta di corso Ercole I d’Este. Cogliere il profilo aguzzo di Palazzo dei Diamanti è una sfida per testare la tecnica acquisita. Il giro termina in piazza Ariostea, dove, infine, da fotografi si diventa protagonisti dell’autoscatto nella tradizionale foto di gruppo.

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Foto di Lai-momo

Per usare le parole del suo ideatore: “At-tra-ver-so significa il mare e le terre che questi ragazzi hanno dovuto attraversare, significa incontrarsi attraverso un linguaggio comune, significa imparare il mondo attraverso il mirino di una fotocamera e condividere tutto questo.”

Paolo è convinto che la fotografia sia anche un mezzo di conoscenza e di interpretazione della realtà e, per il target a cui è rivolta questa esperienza, anche uno strumento di integrazione. Al termine degli incontri è prevista la realizzazione di un volume fotografico e di una mostra-evento aperta alla cittadinanza.

Il progetto partecipa anche a un concorso indetto dall’Unione Reno Galliera e dall’AIFO e può essere votato a questo link:

http://www.renogalliera.it/news-unione/–progetto-lunione-fa-la-pace

 

9
febbraio

Si chiama Closlieu ed è uno spazio protetto di libera espressione artistica offerto ai richiedenti asilo. È condotto dall’operatrice dell’accoglienza di Lai-momo soc. coop. Juliane Wedell, in collaborazione con lo psicologo Paolo Ballarin, a Riola, frazione di Grizzana Morandi (Bo).

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Foto di Lai-momo

Juliane si è formata a Vienna direttamente con Arno Stern, il fondatore della teoria della “Formulazione” e ideatore del Closlieu. Dall’esperienza di lavoro con gli orfani di guerra a Parigi nel secondo dopoguerra, Stern comprese l’importanza per i bambini di dipingere giocando e creò per loro un allestimento originale, il Closlieu, una stanza in cui esprimere la propria creatività, dipingendo senza inibizioni. Da allora il suo campo di studi si è allargato, portandolo a definire una “Semiologia dell’Espressione” e a continuare a studiare e insegnare nel suo atelier di Parigi e nel mondo.

Creando il Closlieu, Arno Stern ha dato alla sua attività il nome di “Educazione Creatrice”, teoria che si pone all’opposto di tutto ciò che è condizionamento, dipendenza, e promuove piuttosto l’autonomia dell’individuo, legando lo sviluppo personale all’esperienza sociale. L’attività nel Closlieu, in quest’ottica, permette all’individuo di realizzarsi tra gli altri, non contro gli altri. Le conseguenze hanno una ricaduta sul lungo termine nella vita di tutti i giorni.

Il Closlieu di Riola è stato inaugurato il 25 novembre 2016, con in programma un’attività a settimana. Attualmente vi dipinge un gruppo di circa 10 ospiti pakistani e africani, non solo del CAS di Riola, ma anche provenienti da altre strutture di accoglienza nei comuni del Distretto Unione Comuni Appennino Bolognese (Vergato, Castel d’Aiano, Granaglione, Lizzano). Da poco si è partiti con un secondo appuntamento settimanale, per aumentare e distribuire meglio il numero di partecipanti. L’attività nel Closlieu vuole essere di sostegno psicologico, offrendo la possibilità agli ospiti di sbloccarsi, di gestire le proprie emozioni, di equilibrarsi e rafforzarsi in generale.

Ma come funziona? La stanza in cui si tiene il laboratorio è rivestita da pannelli su cui sono fissati i fogli con delle puntine, mentre al centro c’è un tavolo lungo e stretto con 18 barattoli di colori e 3 diversi pennelli per colore. Nel Closlieu si dipinge in totale libertà e seguendo i propri tempi, in piedi e rispettando un rituale preciso: tenere con cura il pennello, utilizzare un solo colore per volta, non giudicare il proprio dipinto o quello altrui. Così si dà spazio alla propria espressione artistica, liberi da giudizi e competizioni, con la spensieratezza di un gioco e la serietà di un lavoro.

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Foto di Lai-momo

A condurre il gioco espressivo è il Practicien, che non giudica, non insegna e non interpreta, ma come un “servitore”, favorisce l’espressione artistica. È Juliane quindi, in quanto Practicien ad aggirarsi discreta per la stanza, sorridendo e incoraggiando, sistemando i pennelli e controllando acqua e colori. Tra i partecipanti l’approccio all’attività è vario, com’è naturale: c’è chi si presta subito con grande serietà e concentrazione dall’inizio alla fine; chi si avvicina al foglio bianco timidamente e sembra restio a prendere il pennello, forse temendo il giudizio degli altri o considerandosi incapace, ma che poi, con i propri tempi, arriva a darsi da fare, pennellata dopo pennellata. Pian piano emergono dal foglio bianco profili di case, animali più o meno realistici, elementi naturali e anche i propri nomi. Qualcuno sposa un colore e non se ne separa, altri spaziano di più nella gamma cromatica. L’atmosfera è rilassata e distesa.

Al momento di interrompere, qualcuno sembra indugiare fino all’ultimo, ormai assorbito dal lavoro.

Dopo un’ora e mezza circa di attività, Juliane lascia i fogli appesi per chi chiede di poter terminare la volta successiva, e recupera i lavori completati segnando la data e il nome dell’autore: è importante per monitorare l’andamento dell’attività di ciascuno nel tempo, osservando l’evoluzione del tratto, dei colori, dei soggetti rappresentati. L’attività che si svolge a Riola non è art therapy, ma ha un effetto terapeutico. I partecipanti mettono per qualche momento da parte il mondo fuori e, si spera, tengono a bada qualche preoccupazione interiore, entrando nella dimensione positiva della libera espressione artistica. I risultati più duraturi possono vedersi, probabilmente, solo con il passare dei mesi, ed è questo l’obiettivo di Juliane e del suo laboratorio, che si propone di continuare e consolidare nel tempo.

Può essere una sfida interessante, inoltre, pensare di aprire in futuro il Closlieu anche alla comunità locale, condividendo l’esperienza positiva tra nuovi arrivati e residenti storici.

Per info http://www.arnostern.com

23
novembre
Foto di Lai-momo

Foto di Lai-momo

Una calda giornata di agosto, nella struttura pavanese del Mulino del Chicón, cucina in compagnia e un bel pranzo abbondante: un giorno estivo perfetto non solo per i padroni di casa, Maria Rosa e Silvano, e per i cittadini di Marzabotto, ma anche per Haroon, Dilawar, Manasaf e Riaz, richiedenti asilo di Porretta. Si è infatti svolta a Ferragosto l’ultima giornata in ordine di tempo prevista dal progetto “Contaminazioni in Cucina”, sviluppato da Lai-momo con la partecipazione della Banca del Tempo, del Gruppo Ambiente, della Consulta del Volontariato e del Gruppo di Acquisto Solidale di Marzabotto-Monte Sole (Gasbotto). L’obiettivo, accorciare le distanze tra i cittadini di Marzabotto e i richiedenti asilo ospiti delle strutture di Lama di Setta e Porretta, nella convinzione (molto italiana, ma non solo) che passare un po’ di tempo a tavola insieme sia la strada più veloce per la conoscenza reciproca. E la conoscenza reciproca, come sappiamo, abbatte paure e pregiudizi.

Il progetto è partito presso un’abitazione privata, passando poi per l’Associazione Caracola di Luminasio, con la partecipazione della Vicesindaca di Marzabotto Valentina Cuppi che si è cimentata nella preparazione di pane tipico pakistano (chapati). Le attività hanno coinvolto richiedenti asilo sia pakistani e bengalesi che provenienti dall’Africa sub-sahariana. Alla cucina degli ospiti, con ingredienti acquistati sia in negozi del territorio che in punti vendita etnici di Bologna, si accompagnavano i piatti italiani portati dai volontari, che spesso hanno contribuito con torte ed altri dolci. I costi degli ingredienti, scelti dagli ospiti stessi, venivano poi coperti dai partecipanti e membri dell’associazionismo. Questo quinto incontro, ultimo nel tempo ma non inteso come chiusura del progetto, si è quindi svolto al Mulino tanto caro a Francesco Guccini e all’Appennino tosco-emiliano, con una contaminazione di cucina italiana e pakistana.

Foto di Lai-momo

Foto di Lai-momo

Si è partiti alle 10:00, perché la preparazione sarebbe stata lunga: riso, pollo, zenzero e spezie, per un piatto di pulau semplice da preparare anche nei pentoloni del fornello da giardino, accompagnato dalla salsa Raita fatta con i peperoncini, l’aglio e lo yogurt. Ancora, si è preparato uno stufato di okra e pomodori, corredato di pane chapati impastato e cotto sul momento e salsa chutney con “pochi” (tantissimi) peperoncini. Alla cucina dei piatti pakistani si è accompagnato un “workshop” sul pesto, che gli ospiti hanno imparato a preparare con il basilico fresco dell’orto e che è stato poi servito in un bel piatto di trenette, e la visita al vecchio mulino. A chiudere il tutto, una buona fetta di torta: non stupisce che il pranzo si sia dilungato fino alle 16.00, o che abbia riscosso tanto successo da aver portato alla luce una serie di nuove idee: un ricettario, una serata di approfondimento sul viaggio in Pakistan che alcuni dei commensali avevano compiuto e, naturalmente, la promessa di cucinare ancora una volta insieme.